Il testo fondamentale che dà allo yoga la sua struttura classica sono gli Yoga Sutra del filosofo indiano Patanjali. Suddiviso in quattro capitoli che includono 195 aforismi (sutra), il trattato non ha una datazione ben precisa, ma si fa risalire a un periodo compreso tra il II secolo a.C. e il IV secolo d.C., in un tempo vicino all’apparire del Buddhismo. Gli Yoga Sutra propongono un percorso di trasformazione dell’essere umano che si articola in otto livelli, o “membra”, definiti ashtanga (“ashta” significa otto; “anga” passi) e incentrati prevalentemente sulla meditazione e la ricerca della libertà dalla sofferenza. Patanjali fornisce indicazioni ben precise per portare l’uomo dagli stadi più grossolani agli stadi più “sottili”, fino al raggiungimento della comprensione universale. Andiamo a scoprire le otto tappe evolutive una per volta:
Yama. Sono le astensioni o restrizioni che indicano una condotta morale nei confronti degli altri. Riguardano sia la nostra relazione con gli individui, sia il contesto in cui viviamo. I 5 Yama sono:
- Ahimsa: non violenza. Eliminare l’odio e la paura, che sono le vere cause della violenza, e ricercare un amore universale incondizionato.
- Satya: verità; non essere falsi; non recitare; lasciar emergere la nostra natura più autentica; poterci guardare per quello che siamo.
- Asteya: non rubare; non appropriarsi di eventi e cose che non ci appartengono, che significa accontentarsi di ciò che si ha.
- Aparigraha: non accumulare e non avere smania di possedere l’inessenziale, il che vuol dire saper donare, condividere con gli altri i nostri beni.
- Brahmacharya: non si tratta solo di “astinenza sessuale”, come spesso si traduce, bensì di moderazione, giustezza e contenimento: la capacità di indirizzare in modo consapevole le proprie energie.
Niyama. Sono le osservanze, le regole che indicano una condotta morale nei confronti di sé stessi. Invitano alla ricerca di un modo d’essere in conformità con la nostra natura profonda. I 5 Niyama sono:
- Sauca: purezza e pulizia; autenticità. Essere autentici nel senso di essere in accordo con sé stessi aldilà delle maschere dell’Io; non sottostare al ritratto che gli altri ci impongono e che spesso noi reiteriamo.
- Samtosa: è uno stato di sublime contentezza e appagamento, che non deve avere una ragione precisa.
- Tapas: dalla radice tap, “purificare attraverso il calore”, tapas è l’austerità, il fervore, l’intensità necessaria per essere coerenti con quanto si è compreso. È la fermezza necessaria per raggiungere la capacità di non conformarsi ai capricci dell’Io, ai suoi continui mutamenti. È disciplina nutrita da volontà e fiducia.
- Svadhyaya: studiare inteso come studio di sé, autoanalisi, conoscenza della propria posizione nel mondo, della propria cultura e storia, ma anche come studio di testi che favoriscano e sviluppino questa ricerca.
- Isvara Pranidhana: abbandono al divino; senso di appartenenza a “ciò che tutto permea”. È la creazione di un modello divino interiore a cui ispirarsi per prefiggersi un fine da raggiungere e seguirlo. Vimala Thakar spiega l’ultimo Niyama come: “l’abbandono alla consapevolezza di quella misteriosa sorgente della creazione che è chiamata Dio o divinità da tutte le religioni.” L’Isvara degli Yoga Sutra, però, non appartiene alle religioni: è il dio contenuto nell’uomo.
Questi due stadi iniziali (Yama e Niyama) sono troppo spesso trascurati o, nella migliore delle ipotesi, dati per scontati dai praticanti dello yoga; è invece fondamentale seguire con coscienza queste fondamenta etiche, perché sono la base della disciplina yoga. “La pratica degli asana senza il sostegno di Yama e Niyama è semplice acrobazia.” (B. K. S. Iyengar)
Asana. Questo termine viene di solito tradotto con “postura” per indicare le varie posizioni che si assumono durante la pratica yoga. Tuttavia, negli Yoga Sutra non si fa cenno a posture precise da eseguire, a parte quattro di posizione seduta. Il testo, infatti, è dedicato ai Sannyasin, i “rinuncianti”: coloro che dopo aver percorso tutti gli stadi di vita scelgono di rinunciare alle attività mondane e materialistiche per dedicare la propria vita alle attività spirituali. Per questo non ci sono descrizioni di posture, perché è implicito che i Sannyasin siano in grado di padroneggiare perfettamente il proprio corpo grazie alla pratica dell’Hatha yoga. Il testo parla di Asana per indicare un modo d’essere nel proprio corpo, un modo di abitarlo, uno stato interiore che non possiamo copiare dall’esterno né replicare. Patanjali ci invita a stabilire una particolare qualità di relazione con il nostro corpo, qualunque sia la postura che stiamo eseguendo. “Sthira sukham asanam” dice Patanjali: la postura (Asanam) deve essere stabile (Sthira) e confortevole (Sukham).
Pranayama. È la presa di coscienza dell’atto respiratorio come scambio del sé individuale con il mondo esterno, fino al raggiungimento della fusione con il cosmo. Permette di intervenire nella sostanza più profonda e sottile dell’organismo, il prana, portando all’acquisizione della capacità di governarlo, e perciò modificarlo. Il controllo delle energie vitali attraverso il respiro porta, in uno stadio superiore, aldilà del controllo stesso. Anche in questo caso, Patanjali non offre alcuna indicazione circa specifici tipi di respirazioni da adottare.
Pratyahara. È il raccoglimento dei sensi all’interno di noi stessi, che ci porta a contemplare direttamente la nostra essenza. Avviene quando non si è più identificati con il proprio campo di esperienza sensoriale, ma ci si distacca da tutto ciò che è materiale, da ogni forma esteriore.
Dharana. “È la condizione della mente centrata in un campo di ascolto stabile.” (Yoga Sutra, III.1). È la concentrazione, la capacità di mantenere ferma l’osservazione al variare dei contenuti e degli oggetti mentali, senza scegliere fra essi. Quando si parla di essere concentrati si intende essere “stabiliti nel proprio centro”, ma allo stesso tempo aperti e ricettivi a ciò che c’è al di fuori. Dharana si sperimenta quando il nostro circuito mentale non ci trascina più. L’interruzione dello “sfarfallio” da un oggetto all’altro che normalmente occupa la nostra attenzione ci consente di stabilire relazioni di ascolto con ciò che ci raggiunge, senza tuttavia esserne assorbiti, senza scordarsi di sé. Questa qualità d’ascolto, esito del percorso yoga finora sperimentato, non richiede alcuno sforzo.
Dhyana. “È la capacità di mantenere un ascolto aperto e non selettivo verso tutto ciò che ricade nel campo mentale.” (Yoga Sutra, III.2). Dhyana è la meditazione, l’attenzione contemplativa. In questo stadio lo yoghin porta a compimento e perfeziona Dharana, liberando la mente fino alla sua totale espansione. Dhyana, significa “occuparsi di ciò che è fondamentale”, ovvero delle sensazioni connesse all’essenza di noi stessi. La meditazione, infatti, è quel particolare stato di osservazione che consente di percepire un evento e simultaneamente osservare la propria sensazione di presenza, il nostro esserci. Praticando, si scopre che Dhyana evolve attraverso una sorta di maturazione. Vimala Thakar diceva: “Dhyana implica una crescita verso una dimensione della coscienza dove l’esperienza di sé giunge a un termine. Dove chi esperisce, la coscienza dell’Io, è in completa sospensione. Dove i confini spazio-temporali, le coordinate in cui la coscienza dell’Io si muove, si dissolvono nel nulla. Dove termina la dualità e cade l’ordinaria relazione soggetto-oggetto.”
Samadhi. “Dhyana evolve in Samadhi quando perdiamo la nostra struttura ordinaria (io-centrica). Allora resta soltanto la chiara visione di ciò che non ha forma.” (Yoga Sutra, III.3). Si tratta dell’ultimo stadio dell’ottuplice sentiero yogico, del quale rappresenta il compimento e il culmine. Deriva da sam: “senso di perfezione, coincidenza totale”; e dhi: “posato, fondato in sé”. Il termine potrebbe essere tradotto come uno “stato meditativo della coscienza”, che però è una cosa più profonda di quella che si ritiene normalmente quando si dice “vado a meditare”. È lo stato in cui l’individuo è totalmente identificato con il cosmo e si muove nelle energie del cosmo, non sulla base delle proprie energie personali. È una dimensione di apparente passività, in cui però l’individuo è libero, perché non è più condizionato da rapporti esteriori. Samadhi è tornare Uno con l’Universo, è liberarsi della sensazione di “separatezza” che accompagna ognuno di noi. Avviene quando l’essere umano sperimenta la scomparsa dell’ordinario senso di individualità, che si fonde nell’insieme, nel movimento della vita.
Patanjali ci insegna che è necessario percorrere tutti gli otto stadi per giungere alla totale comprensione, per radicarci nel cuore della nostra esistenza. Non è possibile saltare alcun gradino, né iniziare a praticare la meditazione prima di aver completamente assimilato e trasceso gli stadi precedenti. Solo attraverso la pratica è possibile ritrovare in sé quanto il grande saggio aveva compreso esplorando sé stesso.
Scritto da Bianca Pasquinelli.
BIBLIOGRAFIA:
- Gabriella Cella Al-Chamali, Il grande libro dello yoga, Rizzoli, Milano 2018.
- Moiz Palaci, Renata Angelini, Gli Yoga Sutra di Patanjali. La coscienza dell’essere, Associazione Italiana di Raja Yoga, Milano 2017.
- Moiz Palaci, Renata Angelini, Gli Yoga Sutra di Patanjali. Uno sguardo nel profondo, Associazione Italiana di Raja Yoga, Milano 2017.
- Swami Satyananda Saraswati, Asana Pranayama Mudra Bandha, Yoga Publications Trust, Munger, Bihar, India, 2015.
- Vimala Thakar, Lo yoga oltre la meditazione, Astrolabio Ubaldini, Roma 2000.
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